Caduto dal becco di una cince in volo, un seme di papavero cadde sulla nuda roccia delle Dolomiti, sferzata dal vento di quel tardo autunno. Spaesato di non trovarsi in un campo con i suoi fratelli, il seme si rifugiò in un’insenatura, sperando di non essere spazzato via. Il vento, tra una folata e l’altra, portò nell’insenatura terriccio, pezzi di muschio e quel che rimaneva del guscio rotto di un uovo caduto da un nido. Il seme, approfittando come potè, si rannicchiò nel terriccio, attendendo tempi migliori.
I caldi colori dell’autunno lasciarono il posto agli scuri toni dell’inverno, gli animali si erano già ritirati nelle tane e, tra gli scheletri degli alberi privi di foglie, spuntava qua e là solo qualche fortunato sempreverde. Iniziò a fioccheggiare, lentamente, insistentemente, finché sul paesaggio si depositò una candida coltre di neve. Sotto migliaia di cristalli di ghiaccio, il seme maledì la sua sorte: avrebbe potuto crescere rigoglioso nel campo in cui era nato, ai bordi di quel pozzo, in una campagna assolata, con quel dolce ronzio delle api operose; invece, era lì, su una roccia, da solo, sotto al peso di una gelida neve che avrebbe finito per essere la sua tomba. Rannicchiatosi nel poco terriccio a disposizione, il seme disperato si addormentò.
Al di sopra della neve, quella neve che lui malediceva, quella neve dalla quale si sentiva schiacciare e distruggere, infuriavano le tempeste, si aggiravano gli uccelli affamati alla ricerca di cibo, discendevano gli sciatori che con la loro velocità falciavano via tutto. In quella bianca quiete, il seme cominciò a germogliare: prima un timido puntino verde, poi un rametto, poi un piccolo bocciolo che, lentamente, si fece strada attraverso la neve. Quando finalmente arrivò alla superificie, era ormai l’inizio della primavera e la nuova piantina si nutrì dei raggi solari che tanto aveva desiderato. Stiracchiandosi, il bocciolo si guardò intorno, scoprendo una vista di rara bellezza, con la natura intera che si risvegliava attorno a lui. Pieno di gioia ed entusiasmo, il fiore sbocciò e il suo vivace color rosso, su quella candida neve ormai in disgelo, era una delle cose più belle che si fossero mai viste. Il papavero ricordò quando, ancora seme, cadde dal becco dell’uccello, la dura roccia che fu la sua culla, il vento che lo raffreddò e lo nutrì, la neve che lo schiacciò e protesse. Pensò ai suoi fratelli in quella campagna lontana e capì che la sua piccola odissea, difficile e straordinaria, era stato un dono da raccontare al mondo.
Grazie a Micol per aver generosamente mostrato la sua valigia.
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